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Archive for 25 marzo 2011

di Dino Greco – Liberazione, 20 marzo 2011

 

 

 

La tregua? Ci fosse davvero, oppure no, poco importa: non si voleva sentire, non si voleva verificare. E non lo si è fatto. La cosiddetta comunità internazionale, l’Onu con la sua sbrigativa risoluzione, gli Stati Uniti alla ricerca di una leadership appannata, la coalizione anglofrancese che senza percezione del grottesco si definisce dei «volenterosi», avevano già deciso. Comunque. Sarà guerra, deve esserlo. La no fly zone, la missione mirata – «umanitaria», of course – per proteggere la popolazione civile è una foglia di fico che non può nascondere più nulla. L’obiettivo, ormai dichiarato, è quello di abbattere Gheddafi. La missione diplomatica internazionale, che ancora in queste ore potrebbe essere tentata, per allargare a forza e tenere vive possibilità di dialogo fra le forze in conflitto prima che la situazione divenga irreversibile, non è neppure una peregrina ipotesi. Non lo è mai stata. Pressapochismo delle classi dirigenti europee, velleità neocolonialiste, crudi interessi e cattiva coscienza fanno pendere la bilancia dalla parte di un intervento armato che non avrà, come è evidente, né freni militari, né confini politici.

Come scriveva ieri, su La Repubblica, Guido Rampoldi, «bombarderanno, bombarderemo, senza avere un disegno chiaro, una nitidia prospettiva di quel che sarà e di quel che vogliamo che sia».

Sospinta da sciagurato entusiasmo bipartisan, o da conclamato cinismo, l’Italia si accinge a partecipare di nuovo, da comprimaria, ad una guerra. E poiché l’irruzione delle armi accelera vorticosamente tutti i processi e libera anche le parole, ecco ridefinirsi in corsa l’obiettivo. «Guerra al tiranno, un intervento per giusta causa», titola Il Riformista. Per il Giornale, invece, la “giusta causa” è un’altra e il quotidiano della famiglia Berlusconi la rivela senza mezzi termini: l’Italia deve sparare perché le conviene. E’ «una scelta necessaria per mantenere il nostro ruolo in Europa», ammonisce Alessandro Sallusti, che aggiunge: «non possiamo lasciare che Sarkozy e soci mettano mano da soli sulla Libia, sui nostri interessi economici e sulle nostre strategie politiche». Et voilà, ecco la verità squadernata con lugubre, spietata chiarezza. Insomma, il coinvolgimento dell’Italia nel conflitto serve per poi potersi sedere con qualche titolo di credito al tavolo (spartitorio) della pace. L’Unità, invece, in guerra ci va ma, beninteso, «col cuore gonfio» e Concita De Gregorio ci ricorda mestamente come «da sessantasei anni non siamo mai stati così vicini dall’essere un paese in guerra», dimenticando – potenza della rimozione – che la Costituzione ce la siamo gettata dietro le spalle già nella guerra del Golfo, in Iraq, in Afghanistan, e quando, una decina di anni fa, i nostri piloti parteciparono al bombardamento di una capitale europea, Belgrado, in un’impresa, anch’essa rigorosamente umanitaria, che Massimo D’Alema qualificò come una «straordinaria esperienza umana e professionale».

Eccoci dunque, di nuovo, tutti avvinti alla nobile causa della difesa dei diritti umani, pronti a raccogliere l’anelito alla libertà dei popoli oppressi. Dove conviene, è ovvio. Quando lo sguardo si allarga al mondo diventa subito strabico e intermittente e la passione per l’altrui libertà più elastica e volatile.
Si scopre allora che le satrapìe si possono combattere o sostenere, con ineffabile disinvoltura, alla bisogna, secondo il tempo e le circostanze; il massacro dei civili lo si può fermare oppure praticare in proprio, come «effetto collaterale» o «contingente necessità», o «male minore»; le risoluzioni dell’Onu, poi, sono come la pelle delle palle: si possono tirare da tutte le parti, si possono applicare con scrupolosa solerzia oppure ignorare del tutto, come ci ricorda la drammatica segregazione cui è costretto il popolo palestinese.

Non ci convincono, i mercanti di guerra, quando declinano ogni responsabilità politica e non tentano – qui ed ora – di imporre una soluzione pacifica che, si può esserne certi, non verrà dalle bombe. E provoca un senso di pena l’ipocrisia di quel mondo vagamente progressista, Pd in testa, che, praticando l’autofrode, ormai sostiene senza batter ciglio ogni avventura militare, fingendo che da lì passi la conquista della democrazia.

 

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di Tommaso Di Francesco – il manifesto, 11marzo 2011

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Per esser chiari. E ringraziando subito Rossana Rossanda per la strigliata che ci ha dato. Questo giornale pensa che Muammar Gheddafi deve andarsene, al più presto. Che il suo regime, che non è né una democrazia né uno stato progressista, è finito. Non solo per il delirio che mostra, né perché 41 anni di potere assoluto bastano e avanzano. Il suo ruolo ormai nefasto è apparso chiaro a tutti nel momento in cui ha esortato da Tripoli una parte del suo popolo a prendere le armi contro l’altra. Questo appello alla guerra civile è il segno, sanguinoso, della sua sconfitta. Che precipita sull’intero popolo libico. Siamo oltre un limite davvero insopportabile.

C’interroghiamo però su come questa auspicabile uscita di scena del raìs debba avvenire, senza aggravare lo spargimento di sangue e senza dover attribuire il ruolo di garante dei diritti umani a chi questi diritti calpesta ogni giorno. Nella ricerca di una funzione e di istituti adeguati ad una soluzione di pace, nell’epoca della globalizzazione delle merci che non globalizza la condizione umana se non per ghettizzarla e schiacciarla. Senza in buona sostanza salire sui bombardieri «umanitari» della Nato. Sarebbe una preoccupazione meschina se, da quando si è manifestata, questa giustizia dall’alto dei jet di guerra non avessse non solo non risolto ma resa ancora più ambigua la soluzione sul campo. Parliamo dei risultati degli interventi militari occidentali in Bosnia Erzegovina (poi divisa etnicamente), nel Kosovo (diventata nazione, mafiosa e criminale per l’Onu, un buco intorno alla megabase Usa di Camp Bondsteel) e – paragone stringente – in Somalia (alla mercè di bande islamiste).

Quel che non riusciamo a distogliere dal nostro sguardo è il fatto che, nelle stesse ore in cui si consuma il dramma libico, va in onda a Kabul la farsa dei raid «chirurgici» della Nato che hanno fatto, con gli insorti talebani, più di ottomila vittime civili in quattro anni. E senza dimenticare una grossolana ambiguità. Quella che ha visto gli Stati uniti votare a favore del deferimento di Gheddafi al Tribunale penale internazionale dei diritti umani perché lo accusi di crimini di guerra. Eppure gli Stati uniti semplicemente non riconoscono l’autorità del Tribunale penale internazionale per i crimini dei quali si sono macchiati. Né per Abu Ghraib, né per Falluja, né per Bagram, e con Guantanamo che nessuno chiuderà più. Non dimenticando che per l’Iraq, dove l’insorto era inesorabilmente cattivo e «tagliatore di teste», parliamo di centinaia di migliaia di morti. Ma vale anche per la Russia in Cecenia.

Possono i responsabili di questi crimini ergersi adesso a giustizieri e garanti dei diritti umani? Tantopiù che sono tutti corsi a frotte sotto la tenda di Gheddafi non più «canaglia» per avere petrolio per l’immutabile nostro modello di vita e di consumi o per chidere di chiudere in campi di concentramento i disperati in fuga dalla miseria dell’Africa? No.

Ora la metafora gentile dell’odore di gelsomino non vale più per le rivolte del Maghreb e Mashrak. Dopo la Tunisia e l’Egitto, pure con centinaia di vittime, si è passati in Libia ad una guerra civile, con gli insorti della Cirenaica che insidiano in armi il regime di Gheddafi. È proprio perché siamo stati ad Atene e Lisbona, a Beirut e a Sarajevo, a Madrid e a Barcellona, che c’interrroghiamo su chi siano davvero questi insorti. Perché non siamo intenzionati a passare da un progressismo militare all’altro. Certo in Cirenaica – dove vive meno di un milione di persone – non c’è Al Qaeda, sigla buona per tutte le occasioni. È la propaganda di Gheddafi, e anche di Hillary Clinton che lo ripete a riprova della «cautela» Usa. Ma gli integralisti islamici ci sono, c’è il loro attivismo religioso-politico, del quale Gheddafi è stato il nemico giurato. È un movimento integralista reale, se è vero che la rivolta si richiama a quella del 17 febbraio del 2006 quando la città insorse contro la provocazione anti-islamica della t-shirt mostrata dal clown Calderoli. Come ci sono evidenti divisioni nel Consiglio nazionale di Bengasi. C’è chi vuole l’intervento militare esterno e chi «solo» la no-fly zone, e chi una rivolta indipendente. Ma c’è anche un pezzo della formazione sociale gheddafiana andata in pezzi: clan e tribù impegnate nella spartizione delle ricche risorse, e una parte del governo di Gheddafi che, con due ex ministri e molti ambasciatori, è passato con il «popolo», dall’altra parte. Tutti sotto la bandiera di re Idris.

Cosa significherebbe un intervento armato dell’Occidente, con un ruolo esplicito della Nato e più ancora degli Stati uniti, per la presidenza di Barack Obama, quando già i neocon passano all’incasso delle rivolte arabe, rivendicando di essere stati i primi a promuovere la «democrazia» con l’intervento in Iraq? Quale epilogo avrebbero le «primavere» del mondo arabo di fronte a questa «conferma» – per dirla con l’inascoltato quanto prezioso Giampaolo Calchi Novati – su chi è il Centro e chi la Periferia del mondo globalizzato?

Difficilmente si tornerà indietro. Il meccanismo della guerra «umanitaria» è acceso come quello della no-fly zone, che vede un recalcitrante Robert Gates spiegare che «non è un videogame» ma un atto di guerra con cui, per imporla, si deve subito bombardare l’aviazione nemica a terra e i sorvoli non autorizzato. Come fu per l’Iraq. L’avere evocato, come abbiamo fatto, la possibilità di una guerra motivata «umanitariamente», non è dimenticanza dell’obiettivo di cacciare Gheddafi, ma l’avvertimento che un intervento internazionale aggraverebbe ulteriormente la crisi e cancellerebbe le «primavere» mediorientali. Fino al paradosso di un conflitto per la democrazia sollecitato in chiave anti-sciita dalla «democratica» Arabia Saudita, con in sottofondo un forte retrogusto di petrolio. E sarebbe l’esodo di massa, stavolta biblico davvero, dei profughi libici, di una parte o dell’altra.

Siamo ad un crinale difficile, quasi impraticabile. Possiamo poco come manifesto. Ma l’aiuto vero che possiamo dare al popolo libico è costruire una soluzione di pace che valga anche per il dopo, mobilitandoci subito almeno nel rispetto della nostra vilipesa Costituzione che rifiuta la guerra come mezzo per dirimere le crisi internazionali. Bisogna chiedere subito un «cessate il fuoco» capace di fermare le preponderanti forze del Colonnello ma anche quelle degli insorti. Ed è indispensabile, subito, una missione di Osservatori internazionali promossa delle Nazioni unite, ma partecipata da organismi localmente riconosciuti – la Lega araba, l’africana Oua, l’Organizzazione degli stati islamici – che si frapponga tra i contendenti monitorando il terreno. Questa intermediazione di pace deve aprire trattative con l’obiettivo dell’uscita di scena del raìs. Gli aerei con gli inviati di Gheddafi nelle capitali europee mostrano un varco evidente. Il nostro obiettivo deve essere l’iniziativa di pace, piuttosto che alimentare la guerra civile, come rischia di fare il «democratico» Sarkozy con il riconoscimento del Consiglio nazionale di Bengasi. Anche con il nostro lavoro, perché un giornale è strumento di alfabetizzazione per chi legge ma anche per chi scrive.

Con una sola convinzione. Che il cielo sia lo stesso. Sopra Kabul, Baghdad, Roma, Parigi, sopra Tripoli e Bengasi. Conservo un gruppo di lettere di mio padre da Ajdabya, in Cirenaica, lì dove adesso si combatte. Ha venti anni, monta la guardia seduto su una polveriera, e scrive alla madre, con l’interrogativo «che ci faccio io qui?». Folgorato da una «scoperta»: «Di notte si capisce meglio che il cielo è lo stesso che da noi».

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di Immanuel Wallerstein – il manifesto, 13 marzo 2011

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Cinquantuno anni fa, il 3 febbraio del 1960, l’allora primo ministro britannico Harold Macmillan, un conservatore, fece un discorso al parlamento sudafricano, governato dal partito che aveva costruito l’apartheid come base del suo potere. Quel discorso sarebbe poi divenuto noto come «vento del cambiamento». Vale la pena ricordarne le parole: «Il vento del cambiamento soffia in tutto il continente e, che ci piaccia o meno, la crescita di una coscienza nazionale è un fatto politico che tutti noi dobbiamo accettare come tale e di cui le nostre politiche nazionali debbono tenere conto». Al primo ministro sudafricano Hendrik Verwoerd non piacque quel discorso, di cui rifiutò premesse e consigli. Il 1960 in seguito sarebbe passato alla storia come l’anno dell’Africa, perché 16 colonie quell’anno divennero stati indipendenti. Il discorso di Macmillan di fatto affrontava la questione di quegli stati della metà meridionale del continente africano che contavano gruppi significativi di coloni bianchi (e spesso grandi risorse minerarie), e che si opponevano all’idea stessa di suffragio universale in cui gli africani neri avrebbero rappresentato la schiacciante maggioranza dei votanti. Macmillan era tutt’altro che un rivoluzionario e spiegò la sua tesi sostenendo che si trattava di portare i popoli dell’Asia e dell’Africa a schierarsi con l’Occidente nella guerra fredda. Un discorso significativo il suo, nel senso che indicava come i leader della Gran Bretagna (e poi quelli degli Usa) ritenessero destinata a perdere la causa del dominio elettorale bianco in Africa meridionale e temessero che potesse trascinare con sé nella rovina anche l’Occidente. Il vento continuò a soffiare e la maggioranza africana a vincere in un paese dopo l’altro fino a quando, nel 1994, il Sudafrica stesso non cedette al suffragio universale eleggendo Nelson Mandela presidente. Nel processo comunque gli interessi economici della Gran Bretagna e degli Usa furono in qualche modo preservati.

Due sono le lezioni che possiamo trarre da tutto questo. Una è che il vento del cambiamento è molto forte e probabilmente non c’è modo di resistergli, la seconda è che una volta spazzati via i simboli della tirannide non si può sapere quale sarà il seguito. Quando i simboli cadono tutti, retrospettivamente, li denunciano, ma tutti vogliono anche vedere preservati i loro interessi nelle nuove strutture emergenti.

La seconda rivolta araba sta travolgendo un numero sempre maggiore di stati e non c’è dubbio che cadranno altri simboli di tirannide o verranno concesse modifiche sostanziali delle strutture interne dello stato. Ma chi andrà al potere dopo? Già in Tunisia e in Egitto vediamo una situazione in cui i nuovi primi ministri sono persone chiave dei precedenti regimi. E l’esercito in entrambi i paesi sembra chiedere ai manifestanti di smettere le proteste. In entrambi i paesi sono tornate dall’esilio persone che stanno prendendo posti di potere e cercano di perpetuare, anzi di espandere, i legami con gli stessi paesi dell’Europa e dell’America del nord che sostenevano i regimi precedenti. Certo le forze popolari non si arrendono e proprio ora hanno costretto a dimettersi il primo ministro tunisino.

Nel pieno della Rivoluzione francese, Danton incitava «de l’audace, encore de l’audace, toujours de l’audace» («Audacia, più audacia, sempre audacia»). Un buon consiglio forse, ma Danton fu ghigliottinato di lì a poco, e così pure quelli che lo mandarono alla ghigliottina. Dopo di che ci fu Napoleone e la Restaurazione e poi il 1848, e la Comune di Parigi. Nel 1989, per il bicentenario, praticamente tutti, retrospettivamente, erano a favore della Rivoluzione francese, ma ci si potrebbe ragionevolmente chiedere se la trinità rivoluzionaria – libertà, uguaglianza e fraternità – sia davvero mai stata realizzata. Alcune cose oggi sono cambiate. Ora il vento del cambiamento soffia davvero in tutto il mondo. Per il momento l’occhio del ciclone è nel mondo arabo dove la tempesta continua a infuriare. La geopolitica di quella regione non sarà mai più la stessa. Le zone chiave da tenere sott’occhio sono l’Arabia Saudita e la Palestina. Se la monarchia saudita dovesse essere a sua volta seriamente minacciata nessun regime nel mondo arabo si potrebbe più sentire al sicuro. Un cambiamento di vento porterebbe le due maggiori forze politiche della Palestina a confederarsi e perfino Israele potrebbe dover prendere in considerazione la coscienza nazionale palestinese, che gli piaccia o meno, per parafrasare Harold Macmillan.

Inutile dire che gli Usa e l’Europa stanno facendo tutto quanto in loro potere per incanalare, contenere e reindirizzare il vento del cambiamento. Ma non hanno più la forza di un tempo. E poi il vento del cambiamento soffia anche in casa loro. È così che fanno i venti, la loro direzione e la loro intensità sono incostanti e dunque imprevedibili. E questa volta tira un vento molto forte. Potrebbe non essere più tanto facile incanalarlo, contenerlo e reindirizzarlo.

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Traduzione di Maria Baiocchi

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