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Archive for gennaio 2012

di Mario Tronti, Democrazia e Diritto n. 1-2/2011

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Il discorso sullo Stato, segue al discorso sul partito. La fase, cioè l’oggi, li stringe in un abbraccio: che si vorrebbe mortale e che bisognerebbe rendere vitale. Del resto, questo è un tempo in cui tra ciò che si vuole e ciò che si deve, vale la regola dell’incomunicabilità. Tra Stato politico e partito politico, in mezzo troviamo la crisi strutturale della politica moderna. Questo è il Grund, oscuro, del problema. Oscuro, perché non pensato, semplicemente dato, accettato, subìto. Crisi dei fondamenti, non della politica in generale, come se ne parla genericamente, appunto oggi, ma della politica secondo quanto il Moderno ne aveva offerto di teoria e di pratica, di pensiero e di esperienza. Politica che fa società, intervento soggettivo che tiene insieme un’oggettività, che da sola non sta insieme, quella complexio oppositorum degli individui liberi, che la modernità ha gettato sul campo di guerra della storia umana. Nel Moderno, la politica viene prima dello Stato, Machiavelli prima di Hobbes. La politica fonda lo Stato, come strumento di ordinamento della libera associazione degli individui, a quel punto anche attraverso il diritto. Stato non è polis, non è Impero, nemmeno è potere secolare distinto da potere ecclesiale, non è più quello il problema. Stato è solo Stato moderno. Questo è un punto da tenere fermo. L’invenzione moderna dello Stato va vista, e va messa, dentro l’età modana delle scoperte, geografiche e scientifiche, spaziali e culturali. E dentro la storia moderna del soggetto, o dentro la storia del soggetto moderno. È il grande individuo, il macroantropos, una singolarità inedita, sovraindividuale, artificio giuridico mondano e al tempo stesso Deus mortalis, a cui il singolo vero può affidare la sicurezza, altrimenti sempre in pericolo, della propria vita e dei propri beni. Una nascita graduale, in crescita esponenziale, man mano che si amplia lo spazio della sovranità, locale e sociale, dal territorio alla nazione, dai ceti alle classi, dal Principe al Leviatano e, attraverso le rivoluzioni, dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale, dallo Stato liberale allo Stato democratico. C’è una storia moderna dello Stato, che va posseduta intellettualmente. E non per farne la voce di un Dizionario del pensiero politico, o di un Lessico della politica, ma per individuare e praticare il terreno determinante del conflitto tra idee diverse e opposte di società. Fenomeno storico, lo Stato, limitato nel tempo, che ha avuto una nascita e può avere una morte. Se è solo Stato moderno, la fine dell’epoca moderna segna la fine dell’epoca statuale della politica. C’è una sola via per combattere efficacemente, con l’intento di sconfiggerla, quell’apologia del presente che sono le ideologia del postmoderno. Ed è l’assunzione in proprio dell’orizzonte di crisi della modernità, come un processo lungo, lento, in atto e in transito, come deriva, come decadenza, come dissoluzione. La fine dell’epoca moderna bisogna prenderla da come ne ragionava Romano Guardini, come la fine della storia da come la pensava Alexandre Kojéve: saltando, con un balzo di tigre, la chiacchiera attuale. Il Novecento è la grande scena della tragedia, dove si consuma una vicenda che dalla pace di Westfalia arriva al muro di Berlino, non però al suo crollo ma alla sua fortificazione. Il 1989, e ben più significativamente, il 1991, segna l’inizio dello smottamento, non il terremoto, piuttosto l’impercettibile frana che sta dissolvendo dall’interno il progetto del Moderno, portandolo, davanti ai nostri occhi smarriti, al fallimento. Lo Stato, il discorso sullo Stato, o lo mettiamo dentro questo passaggio, o lo perdiamo alla vista del pensiero critico. Del partito possiamo discorrere nella contingenza, per lo Stato dobbiamo chiamare in causa la storia. Il movimento operaio ha pagato un prezzo altissimo, che ha deciso infine sul destino della sua sopravvivenza, per il fatto di non aver risolto la confusione, formale e materiale, e dunque teorico-pratica, tra partito e Stato. Il socialismo, non è vero che ha peccato per troppo Stato, direi invece per troppo poco. La classe operaia al potere, conquistato giustamente il potere attraverso il partito, avrebbe dovuto gradualmente abbandonare la forma partito per farsi forma Stato. In questo, ripercorrendo tutta intera la vicenda dello Stato moderno, dalla monarchi assoluta allo Stato sociale di diritto. La costruzione del socialismo, tanto più in un Paese solo, soltanto lo Stato poteva salvarla: l’autonomia politica dello Stato, politica e giuridica. Lo Stato ha salvato il capitalismo dalla grande crisi, degli anni Venti- Trenta. Lo Stato poteva salvare il socialismo dalla grande crisi, degli anni Settanta-Ottanta. È il motivo per cui nel primo caso non si è dato crollo e nel secondo il crollo si è dato. Mancava l’autonomia. Autonomia dagli stessi bisogni di violento rovesciamento del segno del potere e nella tecnica di gestione di questo. Autonomia quindi dagli stessi meccanismi di violento sovvertimento di un modo di produzione e di scambio, per rapporti sociali alternativi. Da “Stato e rivoluzione” di Lenin bisogna prendere la teoria della rivoluzione e buttare la teoria dello Stato. Da “tutto il potere ai soviet” si arriva fatalmente alla dittatura commissaria del partito. Dalla cuoca di Marx al terrore della nomenclatura. Perché quanto non è realizzabile si rovescia nella necessità del possibile. Era il partito che doveva alla lunga estinguersi, non lo Stato. È vero che a quella esperienza non è stata concessa la lunga durata. Mai dimenticare poi quanto pesa l’epoca in un tentativo che vuole essere epocale. E quella era l’età delle guerre civili europee e mondiali. Resta la lezione: ancora da imparare. Non è dalla Comune che si deve guardare allo Stato: ma dall’interno della sua storia secolare, dalla sapienza politica delle sue successive trasformazioni. Il Novecento ne ha prodotte di straordinarie, teoriche e pratiche. E sempre nella vicenda occidentale della statualità moderna Resta da capire se la statualità novecentesca sia stata una vicenda della fine, se nel caso si tratti di una fine provvisoria, dell’oscurarsi di una stella, per eclissi provocata dal passaggio di un altro pianeta. A un certo punto al capitale è sembrato che non avesse più bisogno dello Stato. Direi di più: che questa forma tutta politica del dominio fosse di intralcio ai propri liberi movimenti. E che il dominio potesse ormai direttamente venire incorporato nei meccanismi economici, o economico-finanziari, della produzione e della circolazione. Progetto in parte riuscito, dopo la svolta di sistema, che ha archiviato i trent’anni gloriosi, e ha inaugurato il trentennio del cosiddetto neoliberismo. Questo ritorno restaurativo di Ottocento, reagiva con quel piglio dell’innovazione, che ha incantato i modernizzatori della sinistra, alla pretesa novecentesca dello Stato di farsi sociale, e alla politica di occuparsi della società, e ai partito popolari di portare le masse nello Stato. Tutto si tiene. E il punto che decide è da dove partono i bisogni d’epoca. Partono da chi comanda. Poi si può reagire, anche con successo, si può controbattere e tenere provvisoriamente o a lungo in scacco l’iniziativa vincente. Lo hanno fatto gli operai con le lotte nei punti alti dello sviluppo, i contadini in altre parti di mondo in condizioni di arretratezza, lo hanno fatto gli Stati socialisti dividendo giustamente il campo mondiale in sfere di influenza. Mai illudersi che improvvise spontanee insorgenze dal basso possano minimamente, e stabilmente, impensierire i proprietari effettivi del potere. Anzi, in queste insorgenze va volta a volta riconosciuto quel bisogno specifico di sistema, entro cui stanno, nascono e crescono. Solo conosciuto questo, si possono politicamente utilizzare, in una qualche funzione alternativa. Il passo indietro verso il liberismo si è coniugato con i due passi avanti della globalizzazione. Qui si è verificato un accumulo di quantità che ha prodotto un salto di qualità, per usare polemicamente e consapevolmente categorie obsolete. Il capitalismo mondo era iscritto fin dal principio nel rapporto di produzione, scambio e consumo, che ha occupato militarmente tutta intera la modernità. Il Novecento, con tre grandi guerre civili mondiali, ha imposto, o ha permesso, questo salto. Il grado attuale di sovranazionalità del rapporto di capitale non ha precedenti nella storia. L’età del colonialismo, e la connessa fase imperialistica e di capitale finanziario dei tempi di Hilferding e di Lenin, impallidisce di fronte alle dimensioni contemporanee del fenomeno. L’esercito di riserva, ormai anch’esso mondiale, del lavoro sta lì, a volte in prima fila a volte nelle retrovie, a seconda di come fa comodo, a combattere una guerra non sua. La forma Stato viene aggredita qui dall’esterno, da macroprocessi, che ne riducono il peso, la funzione, la consistenza, e ne destrutturato la forza. Vale ancora la classica definizione weberiana dello Stato come “monopolio dell’uso legittimo della forza fisica nell’ambito di un determinato territorio”? Dov’è più la sovranità, da Bodin in poi intesa come facoltà esclusiva di “fare leggi”? Quali e quante le leggi di movimento della società rimaste in mani esclusivamente statuali? E l’hobbesiano Stato-macchina, persona giuridica regolato dalle leggi, è questo oggi il Leviatano, o non piuttosto questa oggettività sistemica di leggi economiche extragiuridiche, che esercitano potere senza legittimità, sovranità senza popolo? Chi e quando squarcerà il velo della finzione democratica, di cittadini che eleggono forme di governo senza forma Stato? L’incipit della Costituzione della Germania, con il grido di Hegel: “La Germania non è più uno Stato”, a descrivere “una condizione di dissoluzione statale”, andrebbe esteso oggi a tutti i Paesi membri delle comunità economiche sovranazionali, incardinati nelle istituzioni finanziarie mondiali. La cessione di potere dall’autonomia del politico alla sovranità dell’economico si esprime in questo paradosso, che butto lì come la scintilla che una volta doveva incendiare la prateria: c’è solo più Stato dove c’è ancora partito e dove la classica obbligazione politica garantisce, essa, il libero movimento delle leggi economiche. È stato un capolavoro della soggettività politica moderna l’atto della congiunzione tra lo Stato e la Nazione. Di lì, grande storia. Ambigua, doppia, tragica e gloriosa. Movimenti di popoli, in lotta di liberazione da antichi servaggi, ma anche di eserciti l’un contro l’altro armati, in guerre micidiali. In nome della nazione, per il proprio Stato, si sono commessi crimini, contro i propri stessi popoli, ma anche provocando così risorgimenti e resistenze. Lo Stato-nazione è realtà politica, che dall’alba dell’età moderna arriva ai nostri giorni. È in corso una transizione, confusa, dove si parla di superamento e si opera per il mantenimento. È storia di Occidente, e di Europa, una storia essa stessa in estinzione. Dentro questo passaggio, stiamo, con un carico di pensiero coltivato e un minimo, ma proprio un minimo, di azione permessa. Il nesso tra Stato e nazione si va divaricando. La nazione sembra in migliore condizione di salute politica rispetto allo Stato. Anche se il concetto si restringe e, come tutto oggi, si involgarisce, da spazio si fa territorio, da storia si fa tradizione, da popolo si fa etnia, e perfino a volte religione. Chi favorisce questa divaricazione sono, di nuovo, produzione e mercato, che non temono e superano d’un balzo i confini geografici, temono e rimangono impigliati nelle sovranità politiche. Insomma, l’esperienza – se vogliamo chiamare così, con una parola banale, le repliche della storia – ci ha insegnato che lo Stato si cambia, non si abbatte. A volerlo abbattere sono oggi gli interessi diretti di capitale, che portano avanti questo proposito in due modi: o utilizzandolo o subordinandolo, come cassa di depositi e prestiti e in più concessore di ammortizzatori sociali, oppure come guardiano notturno e apparato di repressione. I lavoratori hanno ben conosciuto la faccia brutale dello Stato al servizio dei loro padroni. Ma quando sono stati liberi e forti hanno provato essi stessi a introdursi nello Stato, per garantire la propria libertà e ingigantire la propria forza. Anche questa è storia del maledetto Novecento. È vero, c’è il mito dello Stato. Ma esso, prima di diventare un mito reazionario, è stato un mito rivoluzionario. Su quel terreno infatti si giocava la questione del potere. Questa questione sembra non essere più in gioco. Anche potere viene ormai declinato al plurale: poteri forti, poteri occulti e soprattutto poteri micro, una sorta di politeismo dei poteri, come un dio che sta dappertutto e quindi da nessuna parte. Una condizione felice per l’orizzonte di capitale, che non ha più da misurarsi con un potere politico, forte e autorevole, concentrato e autonomo. È quanto consegue all’emarginazione avvenuta della forma Stato. Decisivi sono stati sicuramente i processi di spoliticizzazione degli individui e di neutralizzazione dei conflitti. Ma non sono mancati trasversali contributi soggettivi. Nel 1970, usciva da Feltrinelli, del tutto riscritto, il testo dell’Enciclopedia Fischer, del 1957, Staat und Politik. Il testo italiano diceva Scienze politiche 1, con sottotitolo: (Stato e politica). Tra i lemmi previsti non compare la voce Stato. La giustificazione viene data dal curatore dell’opera, Antonio Negri. L’assenza c’era già nell’edizione tedesca, ma per la ragione, accademica, di un’indefinibilità e ambiguità del concetto, che si può per varie vie approssimare e mai raggiungere, rimanendo alla fine “sempre oscuro data la sua natura ontologica inafferrabile”. La ragione per cui la voce manca in questa edizione è invece che “Stato viene qui considerato una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dallo sviluppo capitalistico […] sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa realtà di dominio”. Nello stesso decennio dei Settanta usciranno presso Il Mulino, a cura di Rotelli e Schiera volumi antologici dal titolo “Lo Stato moderno”, a dimostrare che ci si può fare un’idea del fenomeno Stato solo sul piano storico. La sola considerazione giuridica, come la sola politologica, non sono in grado di centrare il concetto, rischiano anzi di portarlo fuori strada. La determinatezza moderna della forma Stato, per essere pienamente compresa, va misurata sul terreno costituzionale e sul terreno sociale. È quella prospettiva, appunto, di storia costituzionale e sociale, che ha visto in campo nomi di studiosi come Otto Brunner, Otto Hintze, von Gierke e altri. Una bella disputa, che andrebbe oggi ripresa e aggiornata. Qui da noi, lo Stato nato e cresciuto nel contesto storico del “sistema europeo degli Stati”, si è perduto nel sentiero interrotto di una sovranazionalità, che non riesce a farsi sovrastatualità. Al posto di “la Germania non è più uno Stato”, bisognerebbe dire oggi “l’Europa non è ancora uno Stato”. Di più: nemmeno, questa idea di Europa, ma, direi piuttosto, questa pratica di Europa, che si estende nello stesso modo in cui si deprime, essa stessa spoliticizzata e neutralizzata, rischia di essere una forma di anti-Stato e comunque una causa di crisi del sistema europeo degli Stati. Se esistesse una sinistra europea farebbe di questo problema il suo stesso problema, trovando forse una ragione per esistere, nel solco storico della sua tradizione politica internazionalista. Nel frattempo, Paese per Paese, andrebbe consigliata una decisa presa di distanza dalle tentazioni, vogliamo dire dalle pulsioni, di una “politica oltre lo Stato”. Una politica oltre lo Stato vuol dire oggi nient’altro che un’antipolitica. Come lo è di fatto la politica oltre il partito. Ce n’è fin troppo in giro, per suscitarla anche da questo lato. Se è vero che, nel Moderno, la politica ha fondato lo Stato, in questo crepuscolo del Moderno, è a partire dal nuovo Stato che diventa possibile rifondare la politica. Der neue Staat – diceva Rathenau –, come fondamento di una neue Wirtschaft. Magari è ancora questo il passaggio da fare. Invece che chiedere beni comuni per un capitalismo democratico

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di Mario Tronti, Diritto e Democrazia n. 3-4/2010

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“Una quantità di parole che usiamo di continuo, e crediamo perciò di comprendere in tutto il loro significato, sono in realtà chiare fino in fondo soltanto per pochi privilegiati. Così le parole «cerchio» o «quadrato», di cui tutti si servono mentre soltanto i matematici hanno un’idea chiara e precisa del loro significato; così pure la parola «popolo», che molte labbra pronunciano, senza che la mente ne afferri il senso autentico”. Così parlava il matematico e filosofo Frédéric de Castillon, partecipando, e vincendo, al concorso indetto dalla Reale Accademia Prussiana (1778), sulla questione, cara a Federico II, “se possa essere utile al popolo d’essere ingannato”. “S’intende si solito per «popolo» – scrive ancora Castillon – la maggioranza della popolazione, quasi incessantemente dedita ad occupazioni meccaniche, grossolane e faticose, ed esclusa dal governo e dalle cariche pubbliche”. Siamo alla vigilia della Rivoluzione francese, ma siamo in Germania, dove nazione e popolo non si erano ancora incontrati, come era da tempo accaduto, attraverso le monarchie assolute, in Inghilterra, Francia e Spagna. Siamo quindi anche in Italia. Frédéric de Castillon arriva a Berlino proveniendo dalla Toscana. Nazione e popolo nascono insieme in età moderna. E chi li mette insieme è lo Stato moderno. Non c’è nazione senza Stato. Ma non c’è popolo senza Stato. Questo è importante, da un lato per capire, dall’altro per stringere il problema ai tempi che ci riguardano e ci impegnano. Perché il tema è eterno. Biblico, prima che storico. Il concetto antico-testamentario di popolo – il popolo fondato da Mosè – mi sembra più vicino al concetto moderno di popolo di quanto non lo sia il demos dei Greci o il populus dei Romani. Né la città-stato né l’impero fondano un popolo. Non c’è la terra promessa, non c’è l’esilio, l’esodo, non c’è il Dio degli eserciti. I cittadini liberi nell’agorà, come la plebe sugli spalti del Colosseo, non fanno popolo. Immagini, queste, e metafore, attuali/inattuali per il nostro tempo. Popolo è concetto teologico secolarizzato. Non c’entrano niente né l’assemblea degli elettori sovrani, né la belua multorum capitum. Popolo di Dio viene prima di popolo della nazione. Dicono Esposito-Galli, in “Enciclopedia del pensiero politico”, che il processo di secolarizzazione comincia con Marsilio (universitas civium seu populus) e con Bartolo (populus unius civitatis). Ma sarà poi Machiavelli a parlare di governo popolare distinto e contrapposto al principato e alla repubblica aristocratica. E per Hobbes, nello Stato leviatanico, “i sudditi sono la moltitudine e il popolo è il re”. Kings or the people, il poderoso affresco di Reinhard Bendix, ci racconta il passaggio dalla medioevale autorità dei re al moderno mandato del popolo. Mandate to rule: quante volte il moderno del capitalismo ha promesso e non mantenuto questo progetto, che è servito alla fine sempre solo ai suoi fini, di sviluppo, di mutamento e, attraverso guerre e crisi, di rinascimento? La storia del Novecento, nei diversi ritornanti passaggi dai totalitarismi alle democrazie, se ce ne fosse stato bisogno, ha confermato tutto. E mentre scrivo, qualcosa del genere sta di nuovo succedendo, sulle rive del Mediterraneo, nel crollo dei sultanati ad opera del popolo nelle piazze. Dove andranno queste forme di popolo? Che cosa otterranno? A chi serviranno? Bendix racconta appunto l’onda lunga che dall’Inghilterra e dalla Francia del sedicesimo secolo arriva solo nel secolo diciannovesimo in Germania, in Giappone e in Russia e nel ventesimo approda alla rivoluzione cinese e al nazionalismo e socialismo arabo. E’ un’idea di popolo tutta legata al nation-building. E’ un’idea borghese, nazional-borghese, di popolo. Ma al contrario di quanto si penserà nel pensiero progressista, che tanto male ha fatto alla prassi del movimento operaio, il concetto politico di popolo non esplode con la Rivoluzione francese, né con le precedenti analoghe rivoluzioni borghesi, quella inglese e quella americana, che sono forme di guerra nazionali e sociali. Bisognerà aspettare il ’48 per vedere in campo questo nuovo soggetto politico. Delacroix, imbevuto dell’idea romantica di Volksgeist, era riuscito a scorgere nella Rivoluzione di luglio, del ’30, l’immagine trionfante della “libertà che guida il popolo”. Ma è “il maledetto sia giugno” del ’48 che da Parigi all’Europa, vedrà la realtà, inaudita per i borghesi, del popolo in armi sulle barricate, per la propria rivoluzione. Marx commise l’errore geniale di scorgerci profeticamente la figura emergente del soggetto politico operaio. Si trattava in realtà dell’antico proletariato che, dalla prima rivoluzione industriale, aveva già invaso pezzi di società, soprattutto urbana. Ma qui, un punto determinante, di analisi, e di orientamento, e di giudizio. E’ il concetto di classe che fa del popolo una categoria della politica, della politica che ci interessa, quella autonoma dall’uso che ne hanno fatto e ne fanno le forze dominanti Il concetto di classe, e di lotta di classe, irrompe nella storia moderna a scardinare l’intero apparato teorico di analisi dell’economia e della società. L’avevano inventato gli storici della Restaurazione. I reazionari hanno sempre lo sguardo acuto, per interesse di parte, nel leggere la realtà effettuale. Con la classe il popolo diventa soggetto politico. Di lì, una storia ambigua, doppia, niente affatto lineare, luci ed ombre, squarci di chiarezza e periodi di confusione. E’ il punto di vista di classe che fa del popolo un soggetto politico. Senza classe non c’è politicamente popolo. C’è socialmente. O c’è nazionalmente. Due forme di neutralizzazione e di spoliticizzazione del concetto di popolo. La dizione di “popolo comunista” viene aspramente contestata dai teorici, e dai pratici, del nazional-popolare. Giustamente, dal loro rispettabile punto di opinione, di continuità gramsciano-togliattiana. Ma popolo comunista aveva un senso nel partito, e per il partito, che si diceva della classe operaia. Quando questa nominazione è stata abbandonata, già qualche anno prima dello scioglimento del Pci, praticamente nel dopo Berlinguer, non si è estinto solo il popolo comunista, ma il concetto- realtà, politico, di popolo. Dobbiamo sapere che quando diciamo oggi “ceti popolari” stiamo maneggiando un concetto sociologico, una condizione, una collocazione, di presenza sociale, che non a caso risulta imprendibile, irrappresentabile, politicamente. E infatti può essere presa, e rappresentata, addirittura da posizioni antipolitiche. Il populismo sta dentro questo intreccio. Che cosa dice il fatto che populism e narodnicestvo dicono, più o meno nello stesso tempo – gli ultimi decenni dell’Ottocento -, sia pure in forme tanto diverse, la stessa cosa, ed esprimono almeno la stessa tendenza? Che cosa, oltre la previsione tocquevilliana che America e Russia sarebbero stati i grandi protagonisti storici del Novecento? E’ dalla critica del populismo che nasce l’età matura della democrazia in America. E dalla critica del populismo nasce la teoria e la pratica della rivoluzione in Russia. Quest’ultima cosa ci riguarda in modo particolare. Il giovane Lenin che, da socialdemocratico, combatte contro gli “amici del popolo”, si guadagna, su questo campo, l’analisi corretta dello sviluppo del capitalismo in un paese arretrato. E’ il metodo giusto. Il populismo ha sempre indicato un problema. E un problema reale. Anche oggi, da questa segnalazione occorre risalire alla necessità di un’analisi delle condizioni reali, sociali e politiche, economiche e istituzionali, entro cui stiamo. Dalla critica alle soluzioni che il populismo avanza, occorre ritornare all’elaborazione delle soluzioni alternative. Il populismo è la forma, una delle forme, in cui si ripropone periodicamente il problema irrisolto della modernità politica, il rapporto tra governanti e governati. In questo senso il fenomeno ha scavallato la soglia delle società meno avanzate, a prevalenza di economie agrarie e di masse contadine, come può essere stato, e già non lo è più, in alcuni paesi dell’America latina. Il fenomeno ha raggiunto,in forme inedite, le economie che si dicono postindustriali e i sistemi politici che si dicono postdemocratici. E’ qui che va affondato lo sguardo. E questo numero di “Democrazia e diritto” cerca di farlo. Quando discutemmo, al Crs, con Laclau il suo libro “La ragione populista”, apprezzammo il suo sforzo di fare critica del populismo cercando di salvare l’idea di popolo. E’ il percorso giusto. Lo dimostra l’anomalia italiana, quella di ieri e quella di oggi. Quella di ieri vedeva grandi forze politiche saldamente poggiate su componenti popolari presenti nella storia sociale, il popolarismo cattolico, la tradizione socialista, la diversità comunista. Siccome c’era popolo, non c’era populismo. Al contrario di oggi, quando c’è populismo perché non c’è popolo. Torna allora utile proprio qui, anzi qui indispensabile, il richiamo al concetto politico di popolo. Perché di questo si tratta. Come e quando si è dissolto questo che abbiamo chiamato concetto-realtà? E’ avvenuto contemporaneamente e contestualmente al dissolvimento dell’idea e della pratica di classe. E non perché la condizione sociale di classe sia scomparsa, ma perché è stato abbandonato il riferimento politico ad essa. Questo spazio vuoto viene riempito dalla pulsione populista attuale, che non è più originata dal richiamo difensivo ad antiche tradizioni comunitarie, piuttosto, al contrario, dall’adattamento aggressivo alla scomposizione di ogni legame sociale. Lenin apprezzava il primo populismo russo contro il secondo. Come noi dovremmo apprezzare il populismo del People’s Party contro quello attuale del Tea Party. Forse conviene andarci a rileggere Christopher Lasch, come opportunamente consiglia Claudio Giunta nel Focus dedicato al populismo nel numero 4/2010, di Italianieuropei. Leggere, naturalmente con misura, quello che lo stesso Lash scrive nel breve testo pubblicato in quel numero: “La sinistra ha perso da parecchio tempo ogni interesse nei confronti delle classi inferiori. E’ allergica a tutto ciò che assomiglia a una causa perduta”. Una causa perduta è occuparsi ancora, come un tempo, dei problemi quotidiani degli abitanti delle periferie metropolitane, che hanno la pessima abitudine di non frequentare l’Auditorium Parco della Musica. E’ difficile dire che cos’è popolo, oggi. Il popolo del turbocapitalismo: composizione sociale, insediamento territoriale, lasciti tradizionali, lingua, dialetto, culture, tra megalopoli, medio e piccolo centro, paese e frazione di paese, differenza femminile, qui, in questo punto, nel basso del sociale. Spazi di analisi per una sinistra del futuro. Non è navigando in rete che si toccano i livelli profondi dell’esistenza umana disagiata. Non è con la biopolitica che si intercettano i bisogni delle persone semplici, donne e uomini, come si dice, in carne ed ossa. Recita il mantra: nulla è più come prima, nulla si può più dire come prima. Ma io non trovo una definizione diversa di popolo da quella che dice: classi inferiori. Diversa dall’idea settecentesca di una “popolazione dedita a occupazioni meccaniche, grossolane e faticose, esclusa dal governo e dalle cariche pubbliche”. E’ ancora, essa, maggioranza? Dipende da che punto si guarda il mondo: da occidente o da oriente, da nord o da sud. Qui da noi, nel nostro giardinetto, incantato e malandato, la contraddizione è sempre crescente. Sia con la crisi, sia con lo sviluppo, negli ultimi decenni la distanza tra ricchi e poveri è aumentata. Chi lavora, lavora di più e guadagna di meno. Chi non lavora, perché non trova lavoro, scende i gradini della scala sociale: come sta avvenendo per la prima volta a questa forma inedita di sottoproletariato intellettuale. E’ in atto una sorta si proletarizzazione postmoderna dei ceti medi. Sociologicamente quello che si può dire popolo si riproduce in forma allargata. Ma non è questa misura quantitativa il punto decisivo. Anche se fossero destinate, le classe inferiori, ad essere consistente minoranza, è da quella parte che bisogna stare. C’è un solo modo per combattere efficacemente il populismo di oggi, fino a sconfiggere le sue ragioni, ed è nel dare un segno politico a questa realtà di popolo. Gino Germani leggeva in modo perspicace il populismo come passaggio da tradizione a modernità, dove pezzi dell’una e pezzi dell’altra convivevano e si combattevano. Guardava soprattutto a quello dell’America Latina. Ma il discorso vale anche per il populismo delle origini, russo e statunitense. Il populismo di oggi descrive il passaggio dal moderno a quello che si dice il postmoderno, per significare una cosa che nessuno sa che cosa sia, una terra di nessuno, ma per quello che già si può già vedere, un mondo senz’anima, solo corpi, virtuali però, corpi senza carne, appendici delle macchine, le sole creature rimaste intelligenti. La deriva populista, malattia della vecchiaia delle società avanzate, esprime nel suo fondo oscuro essenzialmente tutto questo. La forma politico-istituzionale – sarebbe più corretto dire antipolitico-istituzionale – è il nuovo Leviatano della democrazia populista. Un mostro niente affatto mite, armato di quella violenza sottile che è il consenso plebiscitario, macroanthropos animalizzato, rivestito di luccicanti panni partecipativi, che nascondono la nuda vita della cessione di sovranità dalla nuova plebe all’ultimo capo, nemmeno carismatico. Nel populismo di oggi, non c’è il popolo e non c’è il principe. E quello che abbiamo imparato da bambini – “a conoscere bene la natura de’ popoli bisogna essere principe e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere populare” -, per essere messo di nuovo a frutto, ha bisogno che riemergano, nelle vesti nuove assunte, i poli del conflitto. Per questo, è necessario battere il populismo, nella forma della democrazia populista: perché nasconde il rapporto di potere. E’ l’apparato ideologico, adeguato al nostro tempo, che maschera, e al tempo stesso garantisce, il funzionamento della realtà. Dentro c’è tutto: la dittatura della comunicazione, la vecchia sempre nuova società dello spettacolo, la civiltà dell’intrattenimento, l’ultima retorica di massa, la retorica della rete, l’interattività come luogo di subalternità. Conseguenza: tutti, e tutte, parlano di politica in modo stravagante, non guardando dai luoghi bassi ai monti e dai luoghi alti al piano, ma girando intorno, chiacchierando del più e del meno, di corpi e desideri, di comune e governance, di diritti o di tumulto. Come si fa popolo, oggi: questo è il problema. Come si fa popolo, senza più la centralità della classe. Fare popolo incontra le stesse difficoltà che fare società. E’ possibile riaggregare una soggettività collettiva di persone dopo la disgregazione che gli spiriti animali borghesi hanno prodotto nei rapporti del tutto asociali tra gli individui? E anche: come si fa principe, senza più la sovranità dello stato-nazione. Quale autorità senza Stato, e pur tuttavia ancora in presenza del potere? Chi decide nello stato normale, visto che lo stato d’eccezione si colloca ormai fuori dall’Occidente? Laclau ha fatto più di un riferimento agli studi di Margaret Canovan, sia agli ultimi dove riprende la distinzione di Michael Oakeshott tra una politica redentiva e una politica pragmatica, sia ai primi ( Populism, del 1981 ), dove, appunto, nel populismo, possiamo dire, urbano, diverso dal populismo agrario delle origini, si ripropone il problema del rapporto tra élites e popolo. Il tema del senso della politica e il tema della verticalità della relazione politica, sono strettamente intrecciati. Volta a volta, per ogni tempo, non necessariamente per ogni epoca – le epoche sono rare! – il primo tema rimane eguale nell’eterno ritorno, il secondo cambia forma nel decorso storico. Tenendo ferma politica di redenzione e politica di realismo, devi capire che cosa c’è, qui e ora, nel basso della società e nell’alto del potere. Il Novecento ti ha dato il popolo come classe e l’élite come partito. Una potente semplificazione che ha fatto grande storia. Comprensibile a tutti, ha messo in moto le masse. Modello irripetibile? Probabilmente, sì. Perché è superato il sistema dei soggetti. Ma superare – quella sì un’epoca! – dialetticamente vuol dire conservarne l’essenza di metodo, il movimento della politica. Popolo ed élite non porta al populismo. Porta al populismo capo ed élite. La teoria delle élites ha fatto critica anticipata della personalità autoritaria. E l’avrebbe scongiurata se fosse stata praticata da una grande forza politica. Attraverso la riproposizione della teoria delle élite si potrebbe oggi fare critica posticipata della personalità democratica. E si potrebbe, questa, delegittimare nella pratica di un forte movimento politico. C’è un solo modo per decostruire il potere della personalizzazione ed è quello di ricostruire l’autorità di classi dirigenti. Questo si può fare solo a sinistra e con la sinistra. Soltanto qui si può resuscitare, con la mente, il senso autentico del concetto politico di popolo: specificandolo e determinandolo con il concetto sociale di lavoro. Popolo, non di sudditi, non di cittadini, ma di lavoratori. Popolo lavoratore: nuovissima parola antica. Dove il lavorare raggiunge non la vita, ma l’esistenza, nella centralità politica della persona che lavora. Dopo la giusta, e libera, parzialità operaia – lì giustizia e libertà hanno avuto veramente un senso -, per ritrovarlo questo senso, occorre, ed è possibile, forse per la prima volta, fondare una classe generale. Quella del popolo lavoratore. La classe operaia, nella sua orgogliosa rivendicazione di essere parte, nel rifiuto del lavoro, che nient’altro era che rifiuto di essere classe generale, è stato un soggetto rivoluzionario sconfitto. Perché la sconfitta politica non si traduca in fine della storia, è necessario riafferrare il filo là dove si è spezzato, riannodarlo e ripartire e proseguire. L’exit è totus politicus. Popolo lavoratore come classe generale è possibile solo oggi, nelle condizioni di lavoro esteso e parcellizzato, diffuso e frantumato, territorializzato e globalizzato, lavoro marxiano sans phrase, che va dalla fatica delle mani alla fatica del concetto, dall’occupazione che non si ama all’occupazione che non si trova, un arcipelago di isole che fanno un continente. Che cos’è élite? E’ la forza politica che fa dei lavoratori un popolo. Una classe dirigente che fa non di se stessa ma del lavoro un soggetto governante. Poi si troverà il nome dello scopo finale. Intanto si dicano i mezzi per raggiungerlo.

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di Mario Tronti – Democrazia e Diritto n. 3-4/2009

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La parola chiave serve per aprire la porta dell’agire politico. Ecco allora la difficoltà. La parola partito sembra oggi non assolvere più a questa funzione. Bisogna capire se è la chiave che si è sverzata nel tempo, o se è la serratura a essere stata cambiata, da qualcuno o da qualcosa. La forma-partito, per continuare a usare questa formula di gergo al tempo stesso burocratica ed eloquente, si è dissolta per consunzione interna, o è stata destrutturata da infiltrazioni climatiche esterne? Ricerca. Prima di tutto ricerca. Questo si vuole dire con questo fascicolo di Democrazia e diritto. E ricerca comparata, tra presente e passato e dentro un presente plurale, fatto di storie diverse, ancora declinate nel solco tradizionale dello Stato-nazione.

Più indagine storico-politica, sociologica, politologica, che teoria. Se si è data una teoria del partito, è difficile pensare che si possa dare ancora, in queste condizioni. È interessante notare questa cosa: chi ha speso più pensiero sul tema dell’organizzazione di partito è stato il movimento operaio. La parte avversa si è più preoccupata di sistemare a livello istituzionale la presenza dei partiti. Il dato di fatto è comprensibile. L’interesse dominante aveva la sua forma funzionale di esercizio del potere in quell’altra forma politica moderna, che si chiamava Stato. L’interesse contrapposto, dei dominati, quando ha dovuto cercare una forma politica che desse rappresentazione di sé a livello generale, come faceva la soluzione statale, l’ha trovata nel partito. La socialdemocrazia classica prima, il movimento comunista poi, hanno ambedue percorso, con intelligenza, questa strada. Hanno armato il proprio campo, il proletariato delle città e delle campagne, e quindi la classe operaia con i suoi alleati, nella loro civile lotta di classe, di un esercito, che come tutti gli eserciti, prevedeva soldati e generali, truppe combattenti e stato maggiore. Parlare di partito non si può senza tornare con il pensiero a questa origine storica.

Una vicenda parallela, e cronologicamente contemporanea, è quella dei partiti americani, che tra seconda metà e fine Ottocento, esprimono modelli di organizzazione dell’opinione e del consenso, originali e, malgrado i mutamenti, duraturi. Bisognerebbe tornare a quella vicenda, se non altro per dimostrarne l’inesportabilità, visti i tentativi recenti di importazione che cercano di passare attraverso l’attuale crisi dei partiti. In realtà, partito europeo e partito americano rimangono due visibili realtà alternative, per le diverse forme di sistema istituzionale, per i differenti percorsi di selezione del ceto politico, per gli assolutamente incomparabili e inassimilabili meccanismi di investitura della leadership. Si può dire che, dal secondo dopoguerra del Novecento, l’occupazione politica dell’Europa da parte degli Stati Uniti d’America, si è dovuta sempre fermare davanti alla frontiera invalicabile della forma-partito. E solo la deriva postnovecentesca, iniziata negli ultimi due decenni del secolo, ha aperto varchi a una confusa volontà di cattiva copia di quei modelli.

Un discorso a parte meriterebbe la configurazione dell’idea e della pratica di partito nei sistemi totalitari, fascismo, nazismo, franchismo, salazarismo. Qui il partito diventa strumento di mobilitazione totale. Un grande contenitore ideologico, che dà forma alla massa, l’identifica, l’irregimenta, la muove al servizio del potere di vertice, ma anche luogo pratico di controllo dei singoli nel loro ambito e strumento di formazione delle coscienze. Il partito di Stato è un’originale applicazione dello strumento partito alle condizioni della dittatura, nelle sue varie forme. E la varietà delle forme descrive la diversità delle applicazioni strumentali. Questa indecorosa ammucchiata – indecorosa dal punto di vista etico come dal punto di vista scientifico – che si fa in genere dei partiti al potere nei regimi non democratici, che consegue alla notte delle vacche tutte nere del mantra che recita “i totalitarismi fascista, nazista e comunista”, andrebbe con decisione squalificata nella competizione del dibattito politico. Il partito fascista non era il partito nazista, il partito comunista non era né il partito fascista né il partito nazista. Anche qui la ricerca, l’analisi, la lettura storica delle condizioni, l’interpretazione teorica dei processi, dovrebbe andare finalmente a sostituire l’approssimazione propagandistica, che ha impedito a tutti, ma proprio a tutti, di capire, di conoscere e quindi, su questa base, di giudicare.

Il problema che il Novecento ci ha lasciato irrisolto, e che il dopo Novecento va declinando in forme di nuovo diverse, è appunto il rapporto partito-Stato. Si è posto, in grande, analogamente, nella diversità dei regimi democratici. Il Partaienstaat, lo Stato dei partiti, ha una lunga tradizione di studi, anche legata alla storia dei ceti politici, dagli elitisti a Weimar alla politologia americana fino alla stagione d’oro del “caso italiano”, messo sotto analisi a livello internazionale. E prima di quest’ultimo passaggio, nella lettera e nello spirito della nostra Costituzione repubblicana. Il sistema di potere, di marca democristiana, attraverso la forma del partito di correnti, è stato per un certo periodo un modello vincente di governo della società e di raccolta del consenso, fino all’inevitabile degenerazione e scomposizione. Ma non è che le forme susseguenti di partito abbiano funzionato in modo molto diverso, anzi forse solo in modi più rozzi e volgari. Le cause che hanno portato dalla crisi dei partiti alla crisi della politica – perché questo è stato il percorso, prima la crisi dei partiti poi la crisi della politica – quelle cause sono inscritte in questo quadro di storia recente. Il partito d’opinione, il partito elettorale, il partito personale, sono partiti senza partito. Cioè partiti senza organizzazione, permanente, stabile, quotidiana, non presenti in un generico territorio civile, ma radicati in uno specifico terreno sociale e proprio per ciò, con una visione e una missione.

In questo senso non è precisamente vero che i partiti di oggi soffrono per crisi di rappresentanza. Rappresentano anche troppo, perché rappresentano passivamente, rispecchiano, non interpretano, ascoltano e non parlano. Oggi si può dire correttamente di un giornale che è un partito. Perché la funzione è quella: prendere l’opinione e ripeterla, e con il ripeterla, amplificarla, inseguendo l’opinione dei più, più lettori e più elettori è la stessa cosa. È questa ossessione della maggioranza che fa delle attuali democrazie i regimi più antipolitici che siano mai esistiti. E fa dei meccanismi elettorali la macchina ordinamentale più perfetta che si sia mai data. Non serve più il sorvegliare e punire, basta il chiacchierare e lo spettacolarizzare. La bürgerliche Gesellschaft, la società civile/società borghese, il mondo degli interessi di corpo e dei bisogni privati, o come si dice ora, delle istanze libertarie e dei desideri diffusi, fa direttamente politica, non ha più bisogno di un’intermediazione di partito, così come il governato sceglie direttamente il governante, senza che in mezzo ci sia più l’intralcio di un’istituzione parlamentare. I novatori applaudono, i conservatori riscuotono. Mai una situazione più favorevole per la prassi gattopardesca del tutto cambia non perché tutto rimanga come prima, ma perché tutto diventi peggiore di prima. E infatti, ammirate la scena eccellente: il lavoratore senza contratto, solo, davanti al padrone, il cittadino senza partito, solo, davanti al potere.

Wer aber ist die Partei. Ma chi è il partito? Certo, è difficile di questi tempi recitare la brechtiana Lob der Partei. Eppure, “chi è uno ha due occhi / il partito ha mille occhi”, può tornare a essere vero, più preziosamente vero di tutti i tempi passati. Insopportabile è l’attuale stato del rapporto di forza tra chi sta in basso e chi sta in alto nella scala sociale. La rivolta, collettiva, contro lo stato delle cose è all’ordine del giorno. Questo, e solo questo, è prima di tutto, oggi, politica. Il partito è un’arma, di difesa collettiva contro il sopruso e lo sfruttamento cui è sottoposto ognuno di noi, individualmente preso, in questa forma di società. Ed è un’arma offensiva, di attacco a un esercizio del potere tutto e solo nelle mani di chi adesso in effetti comanda, in modo palese oppure occulto, nelle forme verticalizzate del potere personalizzato oppure nelle forme orizzontali diffuse del potere partecipato. Il partito è un’arma nella battaglia delle idee, l’intellettuale collettivo che produce cultura alternativa a quella dominante, e chiede giustamente all’intellettuale singolo di farsi carico del punto di vista della parte a cui sceglie di appartenere.

Si, lo so, che questa è una lingua estinta, che il parlare “nuovo” non riconosce più. È vera l’obiezione di fondo: questo forse il partito è stato, questo certo non lo è più. Chi di noi se la sente di riconoscersi, qui e ora, in un partito che c’è? Mi ricordo di una frase che disse Laura Lombardo-Radice Ingrao, poco prima della morte: dovevamo diventare vecchi per ritrovarci a essere dei senza partito. Essere dei senza partito per chi vuole fare una politica combattente, forte, efficace, che cambia, che conquista, è una maledizione. Liberarsi da questa maledizione è il compito da passare alle più giovani generazioni. Le strade sono due, parallele e complementari: ripulire la memoria e riarmare la prospettiva. Con una rivista, si può fare bene, volendo, la prima cosa. È quanto cerca di fare questo numero. Per la seconda, non tutto, anzi quasi niente, è nelle nostre mani. Si possono comunque proporre dei buoni argomenti a favore. Uno è questo. La politica è entrata in crisi quando si è destrutturata, con un’operazione, consapevole da destra e inconsapevole da sinistra, la sua forma organizzata. Storicamente, questa forma era il partito. Si può arrivare a pensare che questa parola sia ormai irrimediabilmente senza forma. Ma resta il problema: la politica non si autorganizza, la politica deve essere organizzata. Allora l’alternativa non è: partito sì o partito no, l’alternativa è: politica organizzata o antipolitica. È scandaloso pensare che qui si colloca uno dei punti di differenza tra sinistra e destra?

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