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Posts Tagged ‘sinistra’

di Mario Tronti – il manifesto, 26 febbraio 2012

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Rossana Rossanda, da lontano, ripetutamente, ci suggerisce, ci sprona, qualche volta ci sferza. È una fortuna, per tutti noi, avere una tale voce libera, oltretutto cara, di stimolo e di confronto. A volte, come nell’ultimo, «il manifesto» del 18 febbraio, «Un esame di noi stessi», viene avanti un discorso puro e semplice di verità. L’esame di se stessi, il tentativo di raggiungere un’autoconsapevolezza delle proprie ragioni di vita, è una dimensione alta dell’essere umano, purtroppo ancora privilegiata, a disposizione dei pochi che possono permettersela. Dimensione eterna. La modernità l’ha poi declinata e assai complicata nella forma dell’agostiniano inquietum cor nostrum, o nello scetticismo libertino alla Montaigne. E tra Otto e Novecento è andato a cercarla negli abissi insondabili dell’inconscio. Comunque, è indubbio che il fermarsi un momento per chiedersi: a questo punto, chi sono, o che cosa sono diventato, è un buon esercizio di intelligenza di sé e del mondo. Ancora più necessario, e forse più difficile, quando si tratta di dire: chi siamo e che cosa siamo diventati.

Ma la smetto subito con queste supponenti considerazioni e passo a vie di fatto. Mi pare che Rossana Rossanda abbia fatto un discorso di questo tipo: ha preso le difficoltà recenti e crescenti del giornale per leggerle come metafora delle difficoltà recenti e crescenti, non di quella sinistra come parola ormai «assai vaga», ma di quella precisa sinistra che ha insistito fin qui a chiamarsi comunista.

Ho colto nella voce di Valentino Parlato, quando mi invitava ad intervenire sulla questione, una preoccupazione, che è, penso, di molti compagni e compagne. Che comunisti non ci si possa dire più nei tempi brevi, porta come conseguenza, come ne ha rapidamente dedotto Giorgio Ruffolo, che non ci si possa più dire tali anche nel tempo lungo, quando, come si sa, saremo tutti morti? È un bel problema. Non si risolve qui. Non si risolverà negli anni immediatamente a venire. Lasciamo alle generazioni del XXI secolo la questione aperta. Sui nomi di senso, di significato simbolico, io applico quella categoria somma della politica moderna, che è la Prudenza. Non abbandono un nome finché non ne ho trovato un altro al suo livello di espressività, mutate tutte le circostanze. Non dimentichiamo che la nostra parte sta scontando il purgatorio di aver opposto alla «distruzione creatrice» del capitalismo la decostruzione dissolutrice del socialismo.

Una volta si diceva che per raggiungere un certo obiettivo, ci voleva «ben altro». Oggi si dice che bisogna andare «ben oltre». Dietro le voci soliste che cantano la canzone dell’andare oltre la sinistra, c’è il coro numeroso e chiassoso che ripete il ritornello: non c’è più né destra né sinistra. Nella loro lingua, non c’è vuol dire che non ci deve più essere. Lì abbasso il volume e smetto di ascoltare. C’è, pronto all’uso, un altro nome per definire e per far vedere quel campo di forze che sta di fronte all’interesse capitalistico in modo autonomo, centrato sul mondo del lavoro e con intorno tutte quelle figure, e quelle domande, e quelle questioni, e quelle dimensioni, che solo in riferimento ad esso acquistano senso e soprattutto prendono forza, come soggettività alternativa? Linke, Gauche, Left, Izquierda: fosse per me, direi di questo soggetto, politico, solo Sinistra, con un rosso di bandiera e nessun altro simbolo. Tutti capirebbero, senza bisogno di pubblicitari della comunicazione. E comunque non è dal nome e dalla bandiera che bisogna ripartire. Prima ancora del famoso «che fare», c’è oggi di fronte a noi un inedito «chi essere». Due obiezioni, di fondo. Una. Quelli che si dicono sinistra, oggi, nella parte maggioritaria, danno un’immagine, appunto, molto più vaga, non riconoscibile nel senso forte detto sopra. Risposta: ma allora non si tratta di cambiare il nome, si tratta di cambiare l’immagine di chi lo porta, ceto politico, programma, azioni, intenzioni. Due. Quella rossa Sinistra potrebbe mai essere partito a vocazione maggioritaria? Risposta: e perché, no? Basta, anche qui, non ascoltare la cantilena: vecchia, residuale, la testa rivolta all’indietro, novecentesca, che poi è sempre il massimo dell’insulto, e tutto il fuoco di sbarramento dell’egemonia dominante.

Se c’è, qui e ora, nella contingenza e nell’epoca, un bisogno storico è il bisogno di Sinistra. La crisi, generale, di questa forma di capitalismo lo ripropone in grande. E questa crisi lo ripropone sulla spinta del fallimento di tutto intero un ciclo che si è approssimativamente definito di globalizzazione neoliberista, ma che è stato in realtà nient’altro che un’età di restaurazione per un comando assoluto del capitale-mondo su tutti i mondi della vita, che nei trent’anni gloriosi avevano preso parola di autonomia, di rivendicazione, di conflitto, e di speranza non per l’innovazione ma per la trasformazione. Il fallimento sta nel risultato di società sempre più insopportabilmente divise tra l’alto e il basso, tra privilegi e povertà, tra mito del benessere e disagio dell’esistenza. Non passa quasi giorno che istituti vari di rilevazione non ci informino sul divario crescente tra redditi di lavoro e profitti di capitale. E allora? È una legge di natura o è un difetto di società? Che cos’è Sinistra se non, su questo, alzare la voce e chiamare alla lotta? Abbiamo di fronte un anno, due anni, decisivi. Qualcosa può accadere nel direttivo di testa dell’Europa. Il signor Sarkozy e la signora Merkel potrebbero non essere più al loro posto di comando. E il famoso dopo Monti sarebbe bello e risolto. L’ambiguo Obama troverebbe alleati più sicuri. Un fronte di resistenza al super potere che la gabbia d’acciaio delle compatibilità finanziarie impone ai movimenti della politica, potrebbe assicurare più agevoli percorsi di governo. Perché questo è il vero problema. Non tanto portare al governo le sinistre, ma rendere praticamente, cioè appunto, politicamente, possibile un governo della Sinistra.

In questo contesto, la discussione se dirci o meno ancora comunisti, non mi sembra proprio la cosa più urgente. Figuriamoci! Oggi spaventa perfino la parola socialdemocratico, che non ha mai spaventato nessuno, nemmeno i capitalisti, che hanno benissimo convissuto con quelle esperienze di governo, e che pure, in tempi recenti, hanno spinto le terze vie a dirsi liberaldemocratiche. Oggi l’unico spettro che si aggira per l’Europa è il rischio di default dei loro conti in rosso, derivati, è il caso di dirlo, da un’improvvida gestione dei loro interessi. È qui, in questo anello debole, che bisognerebbe andare a colpirli, se ci fosse in campo una forza anche per poco con memoria, orgogliosa, di quello che è stato il movimento operaio. Ricostruire questa forza, è il programma massimo che ci sta di fronte. La cosa semplice, difficile da farsi, più o meno come il comunismo, nelle disperate condizioni attuali. Abbiamo letto gli atti di un incontro, in quel di Londra, sull’idea di comunismo: ecco, lì, pensatori che parlano oscuro, non sapendo che fare in politica l’hanno buttata in filosofia, ricominciando da Platone. Il comunismo che riconosco è quello: Manifest der kommunistischen Partei, 1848. Lì comincia una storia. La fine della storia, per quanto mi riguarda, coinciderà con la fine di un’esistenza. Nel frattempo – viviamo politicamente nel frattempo – c’è da combattere e possibilmente sconfiggere un avversario di classe. Quando vedo incedere la figura del professor Monti, non ho dubbi. Poi, posso anche stringere con lui un compromesso, provvisorio. Ma dalla parte opposta: la parte del torto, come recitava un bello slogan di quest’altro manifesto, in quanto parte di una sacrosanta ragione.

Il problema è di far vivere il giornale, non quello di cambiare la ragione della sua vita. La ricostruzione di una forza politica, di un soggetto unitario, per una Sinistra modernamente popolare, armata di idee e riconosciuta dalle persone, richiederà anche un giornale unico, di popolo e di cultura. Il manifesto può giocare qui la sua di storia: che è quella delle origini, ma anche quella che in questi decenni ha visto generazioni di lettori in diretto colloquio con generazioni di collaboratori, con diverse idee e sensibilità e culture, però, appunto, viste da una parte. È stato il laboratorio di quello che adesso può esserci. Non è per domani, forse è per dopodomani. Ma per il dopodomani deve lavorarci da oggi. E’ un filo, che non va spezzato, va ricongiunto al prossimo punto d’attacco.

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di Pierluigi Ciocca – il manifesto, 22 febbraio 2012

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È possibile immaginare, e discutere, una politica economica altra da quella, monocorde, del governo in carica e da quella, incompetente, dei governi di Berlusconi? “Il manifesto” dovrebbe farlo e forse venderebbe qualche copia in più. Si può essere, a un tempo, oggi, riformisti-solutori di problemi («doing good», diceva Keynes) e utopisti-rivoluzionari? E utilmente dichiararsi tali?

Speravo che non mi accadesse di essere chiamato a rispondere, pubblicamente e per iscritto, a una siffatta, orticante domanda. Invece è accaduto, per colpa di Valentino Parlato, a cui l’amicizia mi impedisce di dire di no. Valentino me lo ha chiesto sulla scia dell’impegnato, stimolante articolo di Rossana Rossanda, «Un esame di noi stessi». Se non possiamo più dirci comunisti, allora che cosa siamo (il manifesto, 18 febbraio 2012). La mia risposta è sì. Ne discende che il manifesto può – forse deve – restare «quotidiano comunista» e che Rossana Rossanda può – forse deve – «dirsi ancora comunista» anche «nei tempi brevi», con beneficio di tutti. Provo ad argomentare, nel modo più semplice e diretto di cui sono capace (rinviando per una più estesa trattazione a L’economia di mercato capitalistica: un modo di produzione da salvare, in Rivista di Storia Economica, n. 3, 2011).

Il capitalismo – l’economia di mercato capitalistica – è un modo di produzione (nel senso di Marx) o un sistema economico (industrialismo, nel senso di Hicks) unico nella storia e, ovviamente, storico come tutte le costruzioni dell’uomo riunito in società. Figlio della rivoluzione industriale inglese del Settecento – sino ad allora era stato mercato, non capitalismo industriale – questo sistema si è affermato progressivamente. Ha spazzato via un «socialismo reale» che poco aveva a che fare con la migliore teoria – da Barone a Lange, a Kalecki, a Kornai – di una economia e di una società comuniste.

Ben lo compresero i fondatori de il manifesto quaranta anni or sono, il loro merito storico. Unitamente alla debolezza dell’avversario – la insipienza di un socialismo reale il quale non comprese che del mercato qualunque modo di produzione aveva fatto e poteva far uso – l’attuale modo di produzione si è imposto per una ragione economica molto chiara. È la ragione indicata dal Marx economista. Come nessun altro sistema storicamente sperimentato, l’economia di mercato capitalistica è stata capace di sviluppare le forze produttive. Ha smentito Malthus. Secondo la contabilità attualmente in uso, nel volgere di non più di due secoli ha moltiplicato per oltre 60 la produzione, per oltre 120 le attività industriali, di oltre 10 volte il reddito medio pro-capite di una umanità che nel frattempo esplodeva, da uno a sette miliardi di persone. Nei millenni sino ad allora quest’ultimo aveva non di molto oscillato sui 500-600 dollari l’anno, ai valori di oggi. Oggi, avvicina i 7000 dollari.

Un tale attributo positivo del capitalismo industriale ha fatto premio sui tre attributi pesantemente negativi: l’essere il sistema instabile, iniquo, inquinante (tre strutturali «i»). Il modo di produzione sorto in Inghilterra due o tre secoli fa è divenuto totalizzante, eslusivo, l’unico al mondo. Le soluzioni alternative del problema economico – del «che cosa, come e per chi produrre», lo slogan di Samuelson – si sono sempre più configurate come astratte utopie, miti, sogni, a cominciare da quella comunista, ma non la sola.

Negli ultimi decenni tuttavia il modo di produzione nel quale il mondo ha scelto di vivere ha visto fortemente accentuarsi gli attributi negativi – le tre «i» – e, non meno importante, fortemente attenuarsi l’attributo positivo. L’instabilità si è estesa, spesso allo stesso tempo, ai prezzi dei prodotti (l’inflazione), alle attività produttive (recessione e disoccupazione), ai valori dei cespiti patrimoniali (quotazioni degli immobili, dei titoli, delle valute, delle banche). La distribuzione dei frutti dello sviluppo economico è divenuta più diseguale, fra i cittadini del mondo (un miliardo i sottonutriti) e non di rado fra i cittadini di uno stesso paese, l’Italia ad esempio. Le ferite al territorio, all’ambiente, all’ecosistema – la più grave fra le «esternalità negative» – minacciano la vita di moltitudini di uomini, se non la sopravvivenza sul pianeta.

Il progresso economico, seppure generalizzato, ha rallentato rispetto agli anni 1950-70; è stato molto diverso fra aree, paesi e regioni; tende a spegnersi in economie un tempo dinamiche, come quelle del Giappone e dell’Italia, a rischio di declino.

In estrema sintesi, la performance del sistema peggiora. Peggiora al punto da far temere a un numero crescente di scienziati sociali che le sue difficoltà infliggano insostenibili sofferenze al genere umano. Se una crescita bassa, incerta e disuguale dovesse unirsi alle crisi economiche e finanziarie, alle ingiustizie distributive, ai disastri ambientali il sistema potrebbe generare tremende tensioni sociali, politiche, militari. Potrebbe al limite implodere nel caos. Ciò che è più grave, tensioni e caotica implosione avverrebbero nel vuoto di soluzioni alternative non più soltanto utopistiche, ma praticabili nel concreto.

Richiamandomi alla lezione che Federico Caffè offrì in anni non lontani a ogni comunista autore o lettore de il manifesto, scrivevo: «Nell’attesa della ‘palingenesi’, e mentre si adopera per realizzare i presupposti del cambiamento radicale del sistema, egli – dedito a servire il popolo, egli stesso figlio del popolo – avrà cura di evitare al popolo sofferenze inutili, che l’azione riformatrice può prevenire o lenire. Caffè dà naturalmente per scontato che l’utopista/rivoluzionario senta come un atto contro natura il provocare artificialmente, per accorciare il tempo logico della palingenesi, sofferenze e tensioni nel popolo di oggi, in specie nei più deboli e bisognosi. Saprà così sottrarsi al mito un po’ ridicolo della lotta di classe tra genitori e figli, fra generazione presente e generazioni future, tra eredità e pensioni, mito proposto quasi in alternativa al contrasto antico tra profitto e salario, redditi alti e redditi bassi, patrimoni e debiti» (prefazione a Federico Caffè, scritti quotidiani, manifestolibri, Roma 2007, p. 10, scusandomi per l’autocitazione).

Penso quindi che un giornale intelligente e prezioso come il manifesto dovrebbe avere entrambi i timbri, oggi per nulla in contrasto fra loro: quello della proposta di politica economica e sociale di fronte ai problemi che urgono e quello della concreta prospettazione di un modo di produzione diverso dall’attuale. I due profili dovrebbero inoltre, idealmente, essere fra loro connessi in modo stretto.

Io non sono fra i lettori assidui del giornale, ma non mi pare che ciò sia avvenuto e stia avvenendo con lucida consapevolezza e con continuità, neppure con riferimento al solo caso italiano. L’economia italiana, almeno dal 1992, è avviata a drammatiche difficoltà, in parte soltanto già emerse. Vuoto di produttività nelle imprese, crescita di trend spenta, sottoutilizzo del potenziale produttivo e delle capacità individuali, crisi di debito pubblico sottopongono la società italiana a uno stress non più sperimentato dalla guerra e dal dopoguerra, tale da mettere a repentaglio le libertà costituzionali, la democrazia.

È possibile immaginare, e discutere, una politica economica altra da quella, monocorde, del governo in carica e a fortiori da quella, incompetente, dei governi dell’onorevole Berlusconi; il manifesto dovrebbe farlo. Ad esempio, non vale definire «tecnici», e mancare di farli seguire da un qualche dibattito, da critiche e proposte migliori, contributi di politica economica che pure il manifesto ha pubblicato (come quello di chi scrive – Tre urgenze per l’economia italiana, 10 agosto 2010, scusandomi per l’ulteriore autocitazione ! – e quello di Giorgio Lunghini Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi del 16/2).

Se unisse riformismo propositivo e concreta utopia il manifesto forse venderebbe qualche copia in più. Certo interesserebbe la più vasta platea di chi sollecita civili soluzioni per l’oggi e di chi ricerca un mondo migliore, o quantomeno un mondo diverso, per il futuro.

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di Mario Tronti, Italianieuropei n. 10/2011

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Una questione si fa problema quando cerca una soluzione e non la trova. È questa la condizione attuale della politica. C’è una questione politica che sovrasta tutto il resto. È in campo da decenni. Ma il passaggio di crisi economico-finanziaria l’ha messa a nudo. Adesso la possiamo vedere senza occhiali ideologici. Non c’è chi comanda. E la politica è comando sui processi. Quando i processi si autogovernano è come quando si autogovernano i cittadini: ogni cosa va per suo conto. E quando ogni cosa va per suo conto, tutto va allo sbaraglio. Nessuno controlla più niente. A un certo punto i meccanismi si inceppano. E tutti a chiedersi: «Ma come è potuto succedere?». E ognuno a rimandare all’altro l’accusa di non avere previsto. E – questa è poi la cosa più impressionante – nessuno sa come uscirne. Se vogliamo smitizzare il momento e renderci autonomi dalla narrazione corrente, è necessario fare emergere il punto di verità: all’origine della crisi strutturale dei meccanismi di sistema c’è, irrisolta, la questione politica.

Parliamo tutti in prosa senza saperlo. È la prosa delle leggi economiche. Altro che politichese! Si può introdurre il neologismo “economichese”? Abbiamo passato l’estate a fare i conti. La massaia non è andata a dirigere lo Stato. È andata a occuparsi dell’andamento del PIL. Siamo tutti lì, appesi, ricchi borghesi benestanti e precariato intellettuale sottoproletario, all’altalena quotidiana delle borse, al divario crescente dello spread, alle cifre di entrate e uscite, di costi e ricavi, di uscita dal debito ed entrata nella crescita. A pensare ereticamente si esce dal coro, ma forse si indovina la musica giusta. Comincio a pensare che è stato un errore strategico quello del movimento operaio di intrappolarsi, con il Vulgärmarxismus, dentro la “critica dell’economia politica”. Non se ne esce. Non se ne è usciti. Né per mettere efficacemente sotto critica l’ordine del mondo, né, tanto meno, per costruire un ordine nuovo. Ci si è messi piuttosto, in un modo risultato alla fine subalterno, dentro l’immane processo storico di economicizzazione dei mondi vitali e di spoliticizzazione dell’esistenza umana. Questo non è il “moderno”, come molte pulsioni antimoderne hanno voluto sottolineare. Questo è il capitalismo moderno. È l’occupazione, militare, della modernità da parte dell’economia capitalistica. Alla fine della storia, il Leviatano è venuto avanti non come Stato politico, ma come meccanismo sistemico di produzione, circolazione, scambio, consumo e in conclusione come dittatura del denaro, democraticamente accettata. Si dice che le crisi sono occasioni per far ripartire la macchina. Giusto. E se fossero anche occasioni per far ripartire un discorso, di fondo, sulla macchina?

Per almeno tre decenni abbiamo vissuto sotto l’egemonia di questo schema di ragionamento: da un lato, un modello economico trionfante, perché finalmente libero dai lacci e lacciuoli della politica, in grado di provvedere da solo ai suoi bisogni di sviluppo indeterminato; dall’altro lato, di conseguenza, l’inutilità e l’impraticabilità di qualsiasi altro modello: quello esterno, socialista, essendo fallito; quello interno, di sinistra, essendosi estinto. Per quanti anni abbiamo guardato al di là dell’Atlantico come all’economia che senza politica prosperava, a differenza dell’Europa che con la politica decadeva? Le guerre di Bush venivano lette come un incidente di percorso, estraneo alla logica di sistema, mentre erano la dimostrazione più realistica di quella logica, dove la politica, come guerra, è la continuazione dell’economia. Tanto è vero che non vengono affatto dismesse dalla presidenza democratica, semmai solo umanitariamente offerte alle primavere dei popoli. Si dice di poteri assoluti che non sono sottoposti al consenso e al controllo popolari. L’economia, e oggi l’economia a centralità finanziaria, è il potere dei poteri. Le sue istituzioni, sovranazionali, svolgono le funzioni di monarchie pre- e post-costituzionali. Le borse decidono se i governi devono cadere o rimanere in carica. Potentati particolari, agenzie di rating, private, danno i voti all’agire pubblico degli Stati-nazione. E tutto questo viene percepito come “normale”. L’eccezionalismo è nella politica. È causa di tutti i mali perché costa troppo. Ma non sarà che è causa di tutti i mali perché non conta niente? Insomma, bisognerebbe dire che se non si passa a risanare la voragine del deficit di politica, le cose non si aggiusteranno, per quel poco che si possono aggiustare in un siffatto mondo squilibrato.

L’Europa: un esempio di prova a posteriori della sua non-esistenza. Anche qui la crisi viene da lontano. E il buco di bilancio politico risulta ormai di dimensioni allarmanti. Si è voluto partire dalla messa in comune dei beni, anzi del controllo sui beni comuni. Si è partiti dal carbone e dall’acciaio. Poi è venuto il mercato comune – l’Unione economica, con tanto di moneta unica – nell’illusione che tutto questo avrebbe automaticamente trascinato l’unità politica. Un progetto da cattivo materialismo storico. Prima la struttura, quindi la sovrastruttura, come l’intendenza, seguirà. Non è affatto vero. Non funzionano così i grandi processi storici. Forse così funzionano i piccoli aggiustamenti. Le nazioni, per sorgere, si sono fatte Stato. Certo che hanno unificato il mercato interno, hanno battuto moneta, con tanto di Banca centrale, ma con un’operazione politica. I popoli moderni non esistono prima degli Stati moderni. Le popolazioni antiche, tra miti, tradizioni, etnie, appartenenze religiose, non hanno nulla a che fare con il concetto politico di popolo, che la modernità ci ha consegnato. Esisteva un popolo italiano prima dell’Unità d’Italia? Politicamente, no. Rischia di non sopravvivere se non si conserva gelosamente la forma dello Stato unitario. Con le riforme dovute: ma il federalismo, se vuole essere una cosa seria, deve essere, come è nelle grandi nazioni, una organizzazione più efficace e più efficiente della macchina statale.

Bisognava fondare un popolo europeo. Processo storico, anche questo. Preso da lontano, condotto con forza, abilità e perseveranza. Dopo la carneficina delle guerre civili europee, i grandi politici europeisti l’avevano capito. Non hanno avuto eredi. È vero che il livello della storia si è subito abbassato dagli anni Cinquanta in poi e la guerra fredda ha spezzato le ali al volo europeo. È vero soprattutto che la costruzione dell’Europa è stata stravolta poi dalla coincidenza con gli ultimi “trent’anni ingloriosi” di privatizzazione neoliberista e di globalizzazione selvaggia. Ma si sarebbe potuto fare di più, se solo l’Europa avesse continuato a produrre le sue tradizionali élite politiche. Questo non è stato. E siamo ancora lì a chiederci perché. Sono mancate classi dirigenti all’altezza del compito. È incredibile questa produzione recente di personale puramente amministrativo, gestori della moneta, funzionari dei mercati, personalità “flessibili”, riciclabili con facilità dal government alle corporations. Non solo non si va lontano; come stiamo vedendo non ci si muove affatto. Senza élite politiche i processi storici non camminano. Spettava alla sinistra europea, erede del movimento operaio, darsi la missione di raccogliere le bandiere, lasciate cadere, dell’Europa politica. Di missione si tratta, o se si vuole di mito politico, perché Stato e popolo europei sono una blochiana utopia concreta. Ben conosciamo le oscure corpose opacità che una storia di lunga durata ha depositato sul terreno dei singoli Stati e dei singoli popoli. Rimuoverle è un lavoro da giganti. Ma impegnarsi in quell’opera farebbe finalmente emergere un “soggetto”, quel grande individuo collettivo, libero e autonomo, di cui si sente un lancinante bisogno nelle sempre più mediocri contingenze quotidiane.

Sulla vicenda italiana, viene la tentazione di rovesciare il motto di Spinoza: non c’è da comprendere, c’è solo o da ridere o da piangere. Come si sia arrivati a questo degrado è abbastanza chiaro. Quasi tutto è stato detto, su questa malattia apparentemente inguaribile, con conseguente epidemia antipolitica, che è stata, ed è, la cosiddetta Seconda Repubblica. Le colpe, con gradi molto diversi di responsabilità, sono comunque da distribuire. Come mettere fine a questa stagione è il tema all’ordine del giorno, su cui occorrerebbe chiamare a raccolta, non per chiacchierare ma per decidere, le migliori energie del paese. Il problema non è che manca la coesione sociale. Il problema è che manca l’alternativa politica. Se è vero, come è vero, il crollo di credibilità internazionale del paese- Italia, allora va unificato il discorso sul passaggio di crisi economico-finanziaria e sull’intera transizione politica, che lo ha provocato. Si farebbe un decisivo passo avanti se comparissero, netti ed evidenti, in un corretto schema bipolare, due complessive letture della fase e due possibili vie di uscita. Se si rimane dentro l’immediata emergenza dei conti pubblici che non tornano, le ricette tendono necessariamente a somigliarsi. E non si fa chiarezza. Perché non si fa politica. Il governo e la coalizione di centrodestra hanno fatto malissimo sulla manovra, anzi sulle manovre. Dubito che un governo e una coalizione di centrosinistra avrebbero fatto, in queste condizioni, benissimo. E i governi tecnici è vero che, essendo politicamente irresponsabili, possono diventare socialmente pericolosi. È l’intera filosofia di gestione della cosa pubblica, è il complessivo funzionamento degli assetti istituzionali, è l’attuale forma di raccolta del consenso, è la presente selezione, inquinata, delle classi dirigenti, insomma è un progetto di riabilitazione della politica, che va affrontato accanto al risanamento di bilancio. Solo così si può provocare e non semplicemente evocare una mobilitazione attiva, dal basso, a favore di un comune sforzo per uscire dalla stessa immediata emergenza.

Ecco: a che punto sono la protesta, la contestazione, la rivolta, qualcuno dice, il tumulto? Il disagio c’è, forte, diffuso, è un disagio in prima istanza sociale. Si inscrive nell’intero campo di quello che si chiama il mondo del lavoro, da quello dipendente a quello autonomo, dagli operai ai ceti medi, dai manovali agli intellettuali. C’è una generazione (anzi ormai più di una generazione, dai ventenni ai quarantenni) espulsa dal contesto produttivo: uno spreco di risorse umane che impoverisce il paese. C’è una forma nuova di emarginazione, non caratterizzata, come un tempo, dalla miseria solo perché vive sulle spalle delle generazioni precedenti, che si erano conquistate con le lotte redditi e diritti, ma definita piuttosto da una frustrazione mentale, vicina alla nevrosi. Perché non ci si può sentire inutili a trent’anni senza pagare un costo anche psicologico. C’è una figura nuova di sottoproletario che è il lavoratore precario. Non si erano mai visti in giro per il mondo emarginati sociali con tanto di dottorato di ricerca. E la causa di questo non è la crisi di sistema, la causa è la logica di sistema. Oggi siamo accecati dai bagliori della crisi, ma non è che le cose, almeno in questo campo, andassero molto meglio quando si decantava lo sviluppo infinito. La crisi aggrava condizioni già compromesse. E magari fa aprire gli occhi a chi fin qui ha visto poco. Il punto però è questo: che cosa si aspetta, che cos’altro deve accadere, per mettere in campo un processo di unificazione del mondo del lavoro sottoposto a questo disagio di civiltà, crescente e galoppante dallo sviluppo alla crisi? La materia c’è. Manca la forma. Manca l’atto di presentazione di un progetto che si proponga di dare figura politica non a un universo che sta insieme da solo, bensì a un “multiverso” che deve essere messo e tenuto insieme e totalmente mobilitato, in una parola, la più eloquente di tutte, “organizzato”. O dobbiamo metterci in coda ai movimenti, scendere in piazza con gli indignati, salire sulle navi dei pirati, e quant’altro ci offrirà la creatività generosa, bisogna dire, delle persone che, colpite, sentono la necessità di rispondere ai colpi. E, lasciate sole, a volte purtroppo sbagliano bersaglio.

Coalizione sociale del lavoro/coalizione politica della sinistra: il campo delle alleanze a questo punto si apre, perché emerge una forza e si fa concreta una prospettiva. Abbiamo detto: riabilitazione della politica, come capacità di direzione dei processi e di orientamento delle opinioni. La via passa di qui, soprattutto forse da qui. Far vedere che c’è un’idea e c’è una soggettività che la porta. La contingenza è sempre anche un’occasione. Saperla cogliere identifica appunto quel soggetto, cioè quella forza in campo, al di là della contingenza stessa, per il tempo che viene dopo, radicando la sua presenza, dalla politica, nella storia.

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